RACCONTI E CANTI DI BOSCO MARENGO

 

Ampio file di racconti e poesie su Bosco, la sua gente, la sua campagna e altro ancora.

Chiunque sia interessato a pubblicare i suoi racconti e le sue poesie può farsi avanti ed è il benvenuto.

Purché parlino di Bosco della sua terra della sua gente e della sua storia.

  per informazioni contattare     piogallina@boscomarengo.org      339.3836034 

 

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Bosco Marengo  2003

INDICE

A spasso per i prati..................................Pio Gallina

Avventura sulla Bussolana.........................Pio Gallina

Bosco dai verdi prati.................................Pio Gallina

Castelli in aria......................................Giulia Gallina

Gli angeli piangono...............................Giulia Gallina

La casa rossa..........................................Pio Gallina

La mia campagna.................................Giulia Gallina

Morire a Bosco........................................Pio Gallina

O Bosco...............Padre Jean-Baptiste Henri Lacordaire

Passeggiando per i prati di Bosco.................Pio Gallina

Poesie di Giovanni Martini.....................Giovanni Martini

Poesia di Luisella Carretta....................Luisella Carretta

Trinità dei prati.............................................Pio Gallina

Valgelata.....................................................Pio Gallina

Vecchio Bosco.............................................Pio Gallina

Vivere in Valgelata........................................Pio Gallina

 

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LA CASA ROSSA

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La casa rossa “ ra cà rusa “ si trovava sulla vecchia Bussolana, dietro il mulino dove la strada che è il lungo roggia, fa la prima curva a destra. Abbattuta negli anni sessanta ne rimane solo il ricordo in chi l'ha vista e qualche fotografia come questa da cui Giorgio Fonfone ne ha ricavato il suo bel quadro. Era una casa cantoniera dove abitavano due famiglie di addetti alla manutenzione della roggia. Un’altra casa cantoniere si trovava due chilometri più avanti si chiamava e tutt’ora si chiama “ ir casinòt dra Bisia ci abitarono i miei nonni materni e vi nacquero tutti e quattro i loro figli. Questa casetta è il ricordo più bello dei nostri giochi sulla Bussolana che ci ha visti protagonisti, i miei amici ed io, durante le calde giornate d’estate.

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Pio Gallina    

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AVVENTURA SULLA BUSSOLANA

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 Così parla il prof. Pier Luigi Bruzzone, nel secondo volume della storia di Bosco: “ via Bussolana … Si dirama dalla strada da Lemme e tende fra mezzo immense praterie fino alla via Emilia…”

La Bussolana parte dalla strada che va a cascina Vecchia o da Lemme, sulla riva sinistra della roggia vicino all’incastrone della regione Fracchia e si allunga per più di tre chilometri in mezzo ai prati, parallela alla roggia dalla quale dista un centinaio di metri. Era per antonomasia la strada dei prati. Tre chilometri di prati che partivano dal mulino e arrivavano fino all’incrocio con il rio Cervino e come larghezza, i prati si allargavano dalla roggia fino quasi alla cascina Vecchia.  In pratica, per quella strada, tutti i contadini di Bosco avevano un pezzo di prato.

Era bello vedere l’andirivieni di carri tirati da ciondolanti coppie di buoi o mucche, prima vuoti poi carichi di foraggi che al loro passaggio accarezzavano i cespugli ai lati della strada perdendo un po’ del loro carico. Questi restando dove cadeva trasformava la strada in un soffice tappeto di fieno. 

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Oltre ai prati allora c’erano moltissime piante. Piantagioni di pioppeti su entrambi i lati e altri pioppi sui rivi dei fossi e sul lungo roggia, poi querce,

gelsi, salici, ciliegi, qualche noce e mi ricordo perfino un bosso, allora,

di una ventina di centimetri di diametro.

Era, per noi, la strada delle praterie del west.

Pochi bambini hanno avuto, nel corso della loro infanzia, la fortuna di

avere a disposizione degli ambienti cosi pieni di prati e piante, rogge e

fossi quasi sempre pieni d’acqua, com’era allora, quando eravamo piccoli. Oggi reputo che quello era un ambiente invidiabile per chiunque e fu la

nostra fortuna e la fortuna dei nostri giochi. Nemmeno un parco cittadino,

per ben tenuto che fosse poteva dare la voglia di viverlo come a noi lo

davano i prati della Bussolana.

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Quante volte l’abbiamo fatta, quella strada, giocando e correndo all’ombra dei pioppi, prendendo sole e aria buona in mezzo a tutto quel verde.

Sparire dal paese, con i nostri bastoni che erano poi immaginari fucili, con la bandiera in testa e avanti il più lontano possibile dal paese, poche centinaia di metri e poi non vedevi più l’abitato. Solo negli anni sessanta hanno costruito la torre dell’acquedotto che si vedeva spuntare tra gli alberi. Quella, però, era un’altra epoca.

Corrersi dietro, spararsi con i nostri immaginari fucili, prender le rincorse e saltare i fossi pieni d’acqua, nascondersi in mezzo agli alberi fitti fitti della roggia o delle piantagioni di pioppeti, era il gioco spensierato di una ventina di bambini che più di così non potevano chiedere per soddisfarlo.

Immersi in quel verde per noi non esisteva più il mondo civile. Eravamo con la fantasia nel gran west di Buffalo Bill o in mezzo alle piante, nella giungla di Chiomadoro, gli eroi dell’Intrepido. La lettura di quel fumetto, soprattutto i racconti di Buffalo Bill, aveva acceso in noi l’idea di farci un fortino con travetti di legno, come il forte Carson delle giacche azzurre negli episodi di Buffalo Bill.

 

Pio Gallina   

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VALGELATA

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Sotto il muraglione di Bosco

da data immemorata

c’e’ un pezzo di paese

che si chiama Valgelata.  

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con Piero che che, Carlino e Miguèl

qui ci sono nato e qui ho vissuto

con loro ho giocato spensierato

mi son divertito e son cresciuto.

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Quel pezzo di paese era bello

ci vivevamo felici e appagati

correndo per le sue strade come dei matti

fino a quando ce ne siamo andati.

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Eravamo in tanti allora

facevamo una squadra consistente

giocavamo a guardie e ladri con fare allegro

preoccupando i genitori e anche la gente.

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Giocando tra gli ippocastani

per quella strada sotto il muraglione

correvamo come dei forsennati

gridando dietro un pallone.

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Poi alla fonte del pozzo della piazzetta

quando assetati finalmente ci fermavamo

pompando a mano tiravamo su l’acqua

e bevendo con avidità ci dissetavamo.

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La ricordo quella casa rotta

era il nostro immaginario fortino

ci ritrovavamo tutti insieme dopo scuola

a giocare vicino alla casa di Carlino.

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E durante le calde notti estive,

al chiarore della luna piena e parlando di cose vane

seduto con gli amici sul muraglione

ascoltavamo il gracidare delle rane.

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Lo ricordo quel vecchio ma grandioso mulino

che allora andava tutto il giorno  

andavamo anche noi con allegria

a fare il bagno alla lavera, ma poi vi giravamo intorno

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e dietro il mulino un bel lago

e una cascata d’acqua fragorosa

che riempiva il laghetto e le rogge  

per noi era molto famosa

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Erano per noi avventurosi fiumi

quelle rogge nelle verde  campagna

pescavamo pesci, rane e gamberetti

ci tuffavamo nell’acqua, era una vera cuccagna.

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Andavano ad irrigare la verde campagna 

piena di pioppeti, rogge, fossi e prati

che erano il confine dei nostri sogni

non saranno mai dimenticati.

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Anche se allora eravamo povera gente

vivevamo in un ambiente pulito e ben curato

con l’opera faticosa dei nostri  contadini

oggi purtroppo tutto è trascurato.

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Sotto il muraglione di Bosco

dove giocavamo a pallone

non ci sono più gli ippocastani

 e quel pezzo di paese è un po’ dimenticato.

Ma la sua gente con  fede immutata

sospira per veder rinascere

“ la Valgelata “

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POESIE DI GIOVANNI MARTINI

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Case di terra

Case di terra

Nidi di lunghe sofferenze

Senza pane

Noi che moriamo

vi lasciamo i nostri pensieri

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Moltitudine di gelsi

moltitudine di gelsi

disseminati nella solitudine

quando parlerete al vento

di noi di voi

delle nostra amicizia perduta

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Dormi terra mia

buon notturno a te

terra della mia memoria

dormi terra mia

dormi la tua pace

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Tu, sole del mio meriggio

i campi di grano ondeggiano

cresce il fruscio delle spighe

monta la calura del giorno

e scoppi tu

sole del mio meriggio

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Fili d’erba

fili d’erba senza corolle

attingete alle rugiade del mattino

ed odorate le immense cavità

del cielo

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Il verde tenero

a primavera

il verde tenero

del grano nascente

dilaga nella distesa

e trema sotto la carezza

del vento marino 

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Raccontami pozzo

mi avvicino al pozzo

da tanti anni è li

mi sporgo

sulla verticale dell’acqua

mi specchio

l’aria è sombra e taciturna.

Raccontami pozzo, raccontami.

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Le stoppie deserte

Quando il grano

L’hanno tutto tagliato

E l’hanno portato via

Rimangono

Le stoppie deserte

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Le rondini

Anche quest’anno

Sono arrivate le rondini

Vi rivedo rondini

Nella mezzaluce del tramonto.

Avete ritrovato

il vostro nido

Sotto la gronda?

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Perché tu sei là

Ho camminato

Su stoppie abbandonate

E sotto soli cocenti.

Sperduta nel bosco

Ho visto una cappella votiva

O Signore.

Dentro pendeva dal soffitto

Una lampada accesa.

Ora ritorno

Al mio sentiero

Ti chiedo:

perché tu sei là

e fuggi dal mio cuore?

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Tutte le sere

Tutte le sere

Se spunta la luna

Io vedo una terra di sogno.

Tutte le sere

Nella campagna

Io sento un grande respiro

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Giulia, dolce e generoso animo.     papà

 

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TRINITA  DEI PRATI

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Trinità dei prati. Angolo perso di Bosco. Chiesetta tipica di campagna costruita attorno al 1300 e abbattuta nel 1812  per fare la strada che porta a Casalcermelli. Strano destino di questa chiesetta boschese già allora abbattuta e ricostruita vent’anni dopo. Nel 1965 venne riabbattuta perché bisognava allargare la strada. Ma non si poteva spostare la strada una decina di metri verso i prati e conservarla?  Da un bel quadro di Giorgio Fonfone è stata riprodotta da una vecchia fotografia dell’inizio ‘900 quando, come si nota, la strada non era ancora asfaltata. Più avanti una cinquantina di metri sulla sinistra oltre la roggia c’era il martinetto posto di produzione artigianale di attrezzi agricoli manuali e di ferratura del bestiame, bovini ed equini. Tale martinetto è stato dismesso dopo la prima guerra mondiale quando, a Bosco è arrivata la corrente elettrica motrice e i fabbri si sono spostati dentro il paese.

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Pio Gallina       

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BOSCO DAI VERDI PRATI

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Bosco dai verdi prati,

delle tue rogge e dei tuoi pioppeti

del tuo borgo e della tua gente,

la tua quiete mi ristora.

Qui tutto e’ pace e tranquillità. 

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Ammirando il tuo ambiente

nella calma, nella serenità

e nella quiete della sera,

ascolto i tuoi silenzi

e riconosco le voci della natura.

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Passeggiando per la Bussolana

guardo attentamente la tua campagna

la vedo spoglia e desolata

e ripensando al tempo andato

mi ricordo quant ’ erano verdi quei prati.

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Osservando le tue rogge e i tuoi fossi

ripenso ai padri dei miei amici

che tanto han dato per tenerli in ordine

ora li vedo in abbandono e pieni di erbacce

e mi ricordo le acque limpide che vi scorrevano. 

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Passeggiando lungo la tua Orba

vedo una desolazione che mi rattrista

e le sue sponde occupate con abuso

dall’avidita’ di chi per te passione non ha

e mi ricordo la bellezza dei suoi boschi e dei suoi fondoni.

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Passeggiando per i tuoi vicoli

tra case, chiese e piazze,

dal mulino e lungo il bastione,

osservo i segni del tempo andati

e mi amareggio per l'incuria e la tua decadenza.

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Passeggiando per le tue vie

saluto coloro che incontro

sono i figli della tua gente

volti simili alle  persone di un tempo

e mi ricordo di un passato mondo contadino.

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Bosco dai verdi prati

delle tue rogge e dei tuoi pioppeti

del tuo borgo e della tua gente

il tuo ricordo mi risveglia

e ho voglia di riscoprire le mie radici.

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Pio Gallina       

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VECCHIO BOSCO

che desti in me la memoria

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Vecchio Bosco che desti in me la memoria

di quel passato irripetibile che vissi

e che vissero con tanta dedizione

i nostri padri e chi li precedette,

parliamo ancora di come eri allora

per rievocare con i miei ricordi

nei sentimenti dei  giovani d'oggi

com'era fatto il tuo incredibile passato.

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Chi ha vissuto quell'epoca unica

osservando la stanchezza di quella gente

e ripensando oggi a quel tempo andato

non potrà mai dimenticare quella vita trascorsa

tra casa e campagna, famiglia e società

fatiche e sudori e duro lavoro

che sono stati i soli ma sofferti obblighi

che della tua gente ne hanno oberato tutta la vita.

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E la mia giovinezza  per quello ne fu segnata

tanto che presi la mia posizione politica

ma non solo quella ne fu ispirata

lo fu sopratutto il mio modo di essere

che si formò nella passione verso la natura

l'ammirazione per il duro lavoro nei campi

splendore e ricordo di quel mondo contadino

che oggi più che mai mi ritorna in mente.

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La verde campagna di prati e pioppeti

percorsa da rogge da fossi e da strade

piena di cascinali e poderi

che si allarga dal vecchio mulino

alle rive dell'Orba allora selvosa,

fino alla diga di Bosco a Fresonara

era il mondo agreste di padri e di nonni

che han speso la vita operosa per te.

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Pio Gallina  

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VIVERE IN VALGELATA

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Quando veniva la sera, le nostre mamme avevano l’abitudine di mettersi sul portone di casa o sull’angolo della strada più strategico e facevano la chiamata dei loro figli. Chiamavano i loro figli con una voce acuta e prolungata che arrivava lontano e anche se non si capiva il nome, riconoscevamo, dal timbro della voce, la nostra madre.

Nene, sul portoncino di casa, chiamava Pierluigi

Gina sulla strada, chiamava Carlino

Natalina, venendo verso noi in via Manlio, chiamava Piero

Giorgio, papà di Beppe, era l’unico che chiamava suo figlio con un fischio.

Mia madre, dal fondo della via Circonvallazione,  mi chiamava a ripetizione.  E nella quiete della sera, tra il garrire delle rondini, che volavano basse sui cortili della Valgelata, si sentivano le voci di quelle madri che chiamavano i loro figli.

È questo uno dei ricordi più cari e simpatici che ho.

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Erano quelle giornate di giugno, caldissime di giorno e fresche la sera. L’ambiente di Bosco,  che non era disturbato dal rombo dei motori, delle auto o delle moto, offriva dei silenzi a dir poco straordinari. Credo che ciò sia per qualsiasi altro ambiente dove l’uomo non ci faccia lo sconsiderato, ma oggi di luoghi così non ne conosco. A Bosco, era tutto una magica fusione di suoni della natura e voci umane. I mezzi motorizzati che turbavano la quiete incomparabile del paese erano solo quelli del dottore o dei carabinieri.  Trattori quasi nulla, tante biciclette e la stragrande maggioranza dei Boschesi andava a piedi. Alla sera quando si andava a spasso per il paese, quel salutare silenzio dominava su tutto. Si sentiva da una parte il parlare sommesso delle donne che si ritrovavano per la chiacchierata. Da qualche stalla si sentiva il vociare di un contadino che si attardava a governare il suo bestiame e, strano a dirsi oggi ma allora era normale, spesso parlava con esso come se fossero persone. La luce debole dell’illuminazione stradale creava un ambiente, emozionante, da presepio. L’ambiente naturale ci regalava il suo coro di suoni agresti come il gracidar delle rane e il vibrar dei grilli, il tutto immerso in una moltitudine di lucciole che volavano sotto il muraglione e una Luna piena che spandeva il suo chiarore d’argento su tutto.

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Anche noi, madidi di sudore e stanchi dei giochi, sentivamo la necessità di un attimo di tregua e un po’ di riposo. Ci portavamo sul muraglione davanti al mulino, a ridosso di un muro, c’era una panca di granito che esiste ancora. Seduti uno accanto all’altro, ancora con un po’ d’affanno, senza parlare ci calmavamo del tutto. Guardavamo la Luna piena nel suo splendore. Osservare l’astro della notte nella fase di Luna piena, per noi della Valgelata è sempre stato un’attrazione fantastica. Quando veniva proposto quasi mai ci rifiutavamo o proponevamo qualcos’altro. A me scatenava la fantasia e credo, pure agli altri, tanto era il silenzio nell’ammirarla.

Poche parole  uscivano dalle nostre bocche e la nostra fantasia, in fase di totale quiete, rimaneva rapita da quella visione.

" Che che che bella.  "  Balbettava Piero e non più di tanto.

" Mm mm mm. " Tentava di rispondere Paolo ma balbuzie e mancanza di fantasia gli impedivano di dire di più

" Lè bella grande. "  Diceva Carlino raggiungendo il culmine del suo fervore poetico.

"  Ci manca l’urlo del coyote. " Diceva Miguel che con il volo dei suoi pensieri era già arrivato nel nuovo Messico.

"  Fa perfino ombra.  " Dicevo io osservando dietro di me sul muro, la nostra ombra seppur labile.

"  Chissà se lassù c’è qualcuno. "  Disse finalmente Paolo

" Bestia!  Ma sulla Luna non c’e nessuno. "  Rispose Carlino.

" Ma su Marte si "   Intervanni.

"  E tu sei andato a vedere. "  Mi rispose Piero.

" Un giorno mi piacerebbe andare a fare un viaggio su Marte. " Ribattei cominciando ad andare più lontano di tutti con la fantasia. 

Così erano i nostri dialoghi di fronte alla Luna piena in quelle fresche serate estive.  Un parlare innocente di cose vane.

Davanti a noi la sagoma del mulino ci era amica. Dietro, le grosse acacie della roggia, completamente al buio, sembravano ombre. Si sentiva il rombo della cascata, e un coro unico di grilli e di rane riempiva quell’ambiente agreste, facendo compagnia al sonno stanco dei contadini e a noi donava una serenata fantastica che sarebbe rimasta sempre profonda nella nostra memoria.

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Pio Gallina     

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IL MULINO DEL SILENZIO

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 Una stanza vuota

Dai corpi del nutrimento

Solo macchine

Condannate al silenzio 

Le mani sfioravano

La materia in trasformazione

Allora nulla era fermo 

Ma il silenzio non è vuoto

È solo un passaggio

L’attesa di altro

Di un possibile cambiamento 

Oggi

Corpi come tracce trasparenti

Come pelli strappate

Dagli uomini che impregnavano

Grano e farina

Ritrovano

Memoria e forma

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Luisella Carretta             

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O BOSCO

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O Bosco,

verrà il tempo in cui

non riposeremo più sotto i tuoi chiostri,

non ci inginocchieremo più

nella tua devota chiesa,

non passeggeremo più

per la tua bella e vasta cinta di salici e pioppi,

non seguiremo più

i corsi degli innumerevoli e limpidi ruscelli

che bagnano le tue praterie,

ne non lasceremo più

sotto la tua guardia i nostri cari morti!

O Bosco

La patria stessa non ci farà dimenticare

la tua ospitalità,

la tua bontà,

il bene che da te abbiamo ricevuto,

la gioia e l’unione che ci hai procurato;

e prima di morire il nostro occhio ti cercherà

da lontano tra il cielo e la terra.

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Padre Jean-Baptiste Henri Lacordaire    

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PASSEGGIANDO PER I PRATI DI BOSCO

RICORDANDO I NOSTRI PADRI

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Boschese che passi da queste parti… ascolta:

osservando questi  prati, fonte di grandi fatiche

che col sudore di molte generazioni assolta

dalle loro  silvestre condizioni antiche,

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chiediti chi questo splendido ambiente ha edificato

che con manuali mezzi e sovrumani stanchezze

di questa meraviglia l’ha voluto e l’ha formato

per ricavarne invano solo precarie ricchezze.

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Non è il caso che quest'ambiente ha creato,

ma l'opera faticosa di chi ci ha preceduto

che tant'impegno e sudore ha dato:

i nostri padri che sol lavoro e fatiche han conosciuto.

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Con tanto lavoro han prodotto questa bellezza

di storiche rogge, folti pioppeti ed estesi prati,

che oggi lasciamo tristemente nella trascuratezza

stoltamente, proprio noi, lor  successor ingrati.

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Boschese che passi da queste parti…ricorda:

se quest’ambiente che hai visto ti è piaciuto

amalo e rispettalo,  e fa che nessuno scorda,

quella gente che l’ha fatto e tu non hai conosciuto.

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E cerca di conoscerlo quel mondo contadino

che del lavoro, della fatica e del sudore

ne fecero debito assiduo, tenace e destino

per produrre quel che hai visto, bene e con onore.

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Pio Gallina       ritorno all'indice

 

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LA MIA CAMPAGNA

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Caro ciliegio,

che lasci cadere i tuoi petali

come voli di farfalle in primavera.

Scuro muraglione,

che ti imponi al passaggio

come l'animo delle persone dure.

Laborioso aratro,

che rispecchi ancora la tua voglia di lavorare

e la fatica di chi ti guidava.

Vecchio baule,

che ancora oggi nascondi i tuoi segreti misteriosi

proprio come nel giorno in cui decisi di esplorarti.

Rude cancello,

che hai visto il passaggio di tante persone

di cui puoi raccontare le grandi diversità.

Manto erboso,

dove posso vedere ancora le spigliate corse

della mia spensierata giovinezza.

Dolce e generoso animo,

che ancora ripensi alle tue spericolate avventure

vissute in quella verde campagna.

Parlatemi ancora di questo paese.

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                                  scritta da Giulia Gallina

                                   a soli 11 anni, nel 1994,

                                                      a ricordo della casa paterna di Bosco

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CASTELLI IN ARIA

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Granelli di speranze

unite da gocce di ricordi

sospesi in aria da apparenti forti sentimenti

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GLI ANGELI PIANGONO

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Dal ciglio cadono dolci e leggere

gocce di pioggia.

Fresca rugiada lava le corolle

dalla stanchezza dell'ultima sera.

Un triste ma soave profumo

nell'aria aleggia.

Timidi si odono lontani singulti.

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   1° premio Giuseppina Lo Guercio

 1999 - Caselle in Pittari - SA

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Giulia Gallina                  

 

 

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A SPASSO PER I PRATI DI BOSCO

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La strada per san Michele

La strada che portava e porta tutt’oggi a san Michele, era allora come oggi, inghiaiata ma, a differenza di oggi, ci potevi camminare scalzo. Il continuo passare di carri dei contadini trainati dai bovini avevano macinato così finemente la ghiaia la dove passavano le ruote con i cerchioni di ferro, che questa era diventata finissima come il cemento.  Di auto non ne passavano, rarissime, biciclette, gente a piedi ma soprattutto tanti carri con le ruote di legno e i cerchioni di ferro.  Quel lungo roggia era, molto frondoso. Una fila continua di grosse e fitte piante di pioppi neri e roveri con folti cespugli, segnavano la  riva sinistra della roggia oscurando la visuale verso i prati da quella sponda. E sul lato destro della stessa strada, un profondo fosso e grossi pioppi molto ravvicinati uno all’altro, segnavano l’inizio dei prati da questa parte.

I pioppi della Polcevera

Il rio Polcevera era, già allora, poco manutentato, ma quello stato di momentaneo abbandono lo aveva reso migliore. Sulle sue rive, due file di grossi pioppi, sorgevano da una folta e svelta vegetazione di cespugli che davano al corso d’acqua l’aspetto di un fiumiciattolo nascosto nel verde. Ogni pianta e ogni arbusto erano carichi di foglie verdi e i loro rami si curvavano contro l’azzurro cielo che vi faceva da sfondo. Per raggiungere l’acqua bisognava vincere la resistenza dei cespugli che oltretutto non erano rovi spinosi, ma sambuchi, pioppelli e licheni.  Poi appariva il rivolo d’acqua limpida e pulitissima, che, a tratti, scorreva tra l’erba del prato che vi cresceva fin dentro. Sul fondo si erano  formate piccole dune di sabbietta e faceva piacere camminarci sopra. Raggiungemmo il ponte che superava il rio, tra due brillanti pioppi alti una cinquantina di metri che stavano lì da un secolo ai lati della strada e segnavano l’inizio dei poderi della tenuta. Li guardammo impressionati da tanta mole. Erano alti e molto grossi.

I boschi della tenuta

Superato il martinetto, la campagna da quel punto in poi fino all’argine dell’Orba era lasciata a bosco di pioppi, acacie e roveri.  Forse c’erano anche olmi o altre piante, ma io riconoscevo solo queste tre piante: il pioppo perché lo vedevo coltivare dappertutto, l’acacia perché aveva le spine, il rovere perché aveva le ghiande.  Il bosco ceduo mi è sempre piaciuto, con il suo sottobosco con tanti cespugli in parte spinosi. A mano a mano che si procedeva verso l’Orba, lanciavamo sassi tra i cespugli per far volare via i fagiani. Ci divertivamo rumorosamente e senz’altro, fagiani e lepri si erano già allontanati al nostro passaggio.  Gli alberi, ai lati della strada, erano talmente alti e fronzuti, che le loro chiome si toccavano formando una galleria di verzura fresca e ombrosa. Faceva piacere camminare, al fresco, sotto quelle piante. La strada era di terra battuta e c’invitava a camminare scalzi. Mi tolsi i sandali e li infilai in una bretella camminando nella polvere soffice come quella del cemento.

I fondoni dell'Orba

Il termine fondone è un termine praticamente solo boschese e sta a significare un invaso d’acqua profonda. I fondoni  erano e sono dei piccoli laghetti che si formano nel letto del torrente quando questi, in primavera con le piene, vengono spostati verso valle migliaia di tonnellate di ghiaia e sassi e in base alle correnti  si modella il fondo in maniere irregolare formando qua un avvallamento la una dolina di ghiaia e pietroni. Si forma a monte un invaso d’acqua profonda da pochi metri fino a una decina di metri. La sua estensione dipende sempre dalla forma del greto del torrente e può essere di poche centinaia di metri quadrati fino a parecchi ettari di superficie, e lunghi alcune centinaia di metri. E di acqua ce ne tanta, talmente tanta che l’ambiente dell’Orba ne è fortemente condizionato. Il fondone è un ambiente vivo che ha un suo momento di nascita e poi col tempo, da pochi anni ad alcuni decenni, lentamente, riempiendosi di terra e ghiaia portata dalle piene, ritorna ad essere semplicemente un  torrente normale ove l’acqua scorre bassa tra i sassi. Dove oggi c’e un fondone un tempo, nemmeno tanto lontano, c’era un guado d’acqua bassa, e dove oggi c’è  un guado d’acqua bassa, un domani potrebbe formarsi un fondone  I fondoni sono la vita dell’Orba, sono la bellezza dell’Orba, sono la meraviglia dell’Orba, sono un ambiente morfologico perfetto per la conservazione della flora e della fauna ittica e microbiologica. Sono ubicati quasi sempre sott’argine dove la curva del fiume fa dell’argine il perimetro esterno, dove l’acqua durante le piene scorre più veloce asportando più materiale formando il fondone. Queste sponde sono solitamente rinforzate da enormi gabbioni, sacchi enormi fatti con grossa rete metallica zincata, e riempiti di sassi. Ce ne sono di diverse misure, lunghi una decina di metri e alcuni quadrati di alcune centinaia di metri cubi di volume. Anni fa, munito di maschera da sub, mi sono immerso in uno di questi fondoni. I gabbioni poggiavano sul fondo del fondone ad un cinque o sei metri, e sbucavano dall’acqua per altrettanto, appoggiati sulla sponda e sull’argine ove pioppi e  salici, crescevano in mezzo a loro fin dentro l’acqua.  Sott’acqua tra gabbioni, rami e radici trovano rifugio una infinità di pesci. Il pesce per eccellenza è la carpa. Questo ciprinide, verde brillante sulla schiena e giallo sulla pancia, già bello di per sé, è considerato il maiale di fiume. Di due specie: carpa nostrana e carpa a specchi tipica da allevamento, passa il suo tempo a grufolare sul fondo melmoso dei fondoni, cibandosi di microalghe ed erbe acquatiche, produce cinquecentomila uova per kilogrammo di femmina che vanno a nutrire per mesi, tra uova e avannotti, una miriade di altri pesci.  Oggetto di una pesca scellerata, da pescatori boschesi e non, ne fu quasi estinta la presenza della razza autoctona. Le attuali carpe esistenti sono state reintrodotte da allevamenti. Un altro pesce tipico dei fondoni è il cavedano ( quaiastro ) bianco argento, vive nell’acqua corrente ai limiti dei guadi. Formidabile predatore di pesci piccoli, è considerato lo spazzino del torrente. Qualsiasi pesce, malato o morto, finisce inesorabilmente nel suo stomaco impedendo che  la decomposizione inquini l’acqua da agenti patogeni conseguenti. La predazione sugli avannotti di carpe ed alborelle limita il sovraffollamento da pesci solo erbivori contribuendo in maniera  notevole al mantenimento  dell’equilibrio ecologico del fondone. Comunque è un pesce onnivoro, viene pescato con tutto quello che la stagione in corso produce, sambuchi, mais ancora da maturare, ciliegie, palline di polenta, fiocchetti di pane. Le alborelle sono pesci azzurri che vivono a branchi. La loro presenza permette la vita ad altri pesci come il cavedano, appunto, la trota, l’anguilla e non ultimo le bisce d’acqua.

Nel mese di giugno durante il periodo dell'accoppiamento ( della fregola ) saltano sull'acqua animando il torrente. Come si può capire, la distruzione di un fondone, sotto tutti gli aspetti che lo possono provocare è soltanto un grosso danno difficilmente riparabile.

The cottage on the river

Gli alti fusti dei pioppi, mano a mano che avanzavamo, lasciavano sempre più posto a piante più basse, nate a cespuglio, che formavano una vegetazione spontanea ripariale più densa. Erano, in ogni modo, sempre pioppi, roveri e diverse acacie, immersi in un sottobosco foltissimo di arbusti di ogni tipo. Apparve allora in mezzo alla vegetazione il tetto in coppi di una grossa capanna. Proseguimmo di corsa scavalcando mio zio e ci trovammo, presto, in una specie di spiazzo pulito dal sottobosco ma con le piante più belle, ancora al loro posto, davanti alla costruzione. Eravamo finalmente arrivati alla capanna dei cacciatori, sulla cui porta d’ingresso su di un’assicella una scritta:  the cottage on the river.  Quella capanna era stata costruita, qualche tempo prima, da un gruppo di cacciatori di Bosco che, amanti della caccia e delle escursioni in un ambiente selvoso come l’Orba di allora, la utilizzavano come base di appoggio durante le loro battute di caccia, come punto di ritrovo per le loro bisbocce  e quando portavano i loro cani per la campagna nei periodi di addestramento. Era fatta in tronchi d’albero, quattro grossi sui quattro lati, grossi rami per traverso formavano le pareti che erano state stuccate con terra dei campi, setacciata e pulita da tutte quelle impurità come sassolini, paglia, zolle di letame e altro, poi mischiata con della sabbia fine, come fosse della calce. Il tetto era in coppi e un camino ci faceva bella figura. L’interno aveva le pareti, pure stuccate sempre in terra dei campi, e rivestite con carta da pacco. Così me la ricordo. Non ricordo se aveva sedie o tavoli, ma l’interno era molto accogliente. Probabilmente, nei periodi invernali, era usata da questi amici della bisboccia che si scaldavano con la stufa in ghisa che scaricava i suoi fumi con un tubo verniciato d’alluminio e usciva dal camino attraverso il tetto. Lo spiazzo davanti alla costruzione era abbastanza ampio e dava verso l’Orba. Le piante e i cespugli dell’argine verso il torrente scendevano sul greto con lui e abbassandosi, lasciavano aperta la visuale su un gran fondone che si vedeva lontano verso la riva sinistra del torrente. Questi, un poco più a monte, era alimentato attraverso un guado, da un  altro fondone che si trovava sul lato destro del torrente proprio sotto l’argine il quale era protetto da immensi gabbioni. Il sole di mezzogiorno colpiva in pieno tutto lo spiazzo e la facciata della casa dandogli una luminosità eccezionale. In un angolo di quello spiazzo, un pozzo molto artigianale, fatto con tubi zincati, piantati con il maglio, ad una profondità non più di una decina di metri, forniva l’acqua necessaria tirata su con una pompa a mano.  Di fronte alla facciata della casa un pergolato d’uva fragola formava un angolo in ombra sotto il quale un tavolo e alcune panche raccoglievano al desco della bisboccia alcuni cacciatori, persone da noi conosciute perché erano del paese.

Il prato dei fagiani

La meta questa volta era un altro mio prato in fondo ad una strada che tira dritto alla prima curva della Bussolana. Questa si diparte dalla Bussolana alla prima curva, tirando dritto per almeno un chilometro, e finisce in un paio di fondi di cui il penultimo è gravato da servitù passiva. In quel prato ci andavo volentieri perché lo consideravo il migliore che mio padre avesse in affitto.  Era tutto circondato da grossi alberi di pioppo, che segnavano i fossi che ci stavano attorno, la vegetazione della riva era rigogliosa e chiudeva il gran  prato come in una cinta, vi cresceva un’erba fine fine che ci faceva un piacere camminarci sopra scalzo. Abbondava in fondo a questo prato l’insalata che vi cresceva assieme al trifoglio. Ci arrivammo camminando nell’acqua fino alle ginocchia attraverso i prati che erano intorno. Di corsa saltammo il fosso ma ci cascammo tutti dentro trovadoci  immersi nell’acqua fino alla cintola.  Risalimmo il rivetto del fosso e uscimmo allo scoperto. Eravamo fradici ma entusiasti, e più ancora ci toccò forse la più bella sorpresa della giornata. Quel prato quando irrigavano la campagna era sempre l’ultimo ad essere irrigato,  per cui in quel momento sul prato notammo diverse coppie di fagiani e di lepri che se ne stavano all’asciutto. Come ci videro diedero l’allarme. I fagiani lanciarono il loro grido inconfondibile e le femmine automaticamente si cucciarono nell’erba bassa  sparendo praticamente alla nostra vista, le lepri batterono vigorosamente le zampe posteriori sul terreno e alzarono dritte le orecchie restando immobili sull’allerta. Brachette e sandali in mano, completamente in mutande, fradici di acqua da capo a piedi, guardavamo quello spettacolo estasiati.

Un bagno indimenticabile

Vedemmo uno specchio d’acqua incredibile: un fossato largo un paio di metri e lungo una ventina era li davanti a noi tra due file di pioppi decennali. Il fossato era pieno di acqua fino al colmo dei rivetti e scolmava lentamente, in tutta la sua lunghezza, verso i prati di destra e di sinistra che aveva quasi allagato completamente.  Il suo deflusso era calmo e l’acqua dei prati bagnava per quasi una spanna la base dei pioppi. L’acqua della roggia percorreva per un chilometro un fosso, filtrata da  cespugli di licheni ed erbe acquatiche e vi arrivava pulita e limpida,  quasi da bere.  La sua velocità, entrando nel  fossato, rallentava e acquisiva quella calma che la faceva trasparente come uno specchio, senza increspature che ne turbassero la superficie. Si vedeva benissimo il fondo di una gambata d’acqua pieno di erba verde e fine, le fronde dei pioppi gli si riflettevano, il cielo si rivelava del suo azzurro intenso, nel riflesso sull’acqua si distinguevano perfino le poche nuvole. Fu per noi un invito talmente allettante che nessuno parlò. Ci sfilammo in silenzio canottiera e pantaloncini e in mutandine ci tuffammo a palla  tutti quanti uno dietro l’altro. 

La gran cascata

Proseguimmo attraverso il prato verso il mulino. Gia da li vedevamo tra gli alberi la cascata bianca e spumeggiante di cui ne sentivamo il rombo. Il lago di quella cascata che noi chiamavamo  “bugiòn” non era allora come è purtroppo oggi dove il cemento e l’interramento ci ha fatto scempio. Quel lago era più  esteso. Ancora oggi si vede la sagoma della vecchia posizione.  Era circolare, di almeno una decina di metri più largo verso il prato, la riva era bordata da grossi pioppi neri e grandi salici le cui fronde scendevano fino a toccare l’acqua.  Cinque metri cubi d’acqua al secondo, portati dalla roggia, scendevano con un salto di cinque o sei metri, bianca, spumeggiante e fragorosa,  riempiendo il laghetto fino quasi a straripare e se ne andava verso le rogge di  San Michele e verso il Bedale, portando acqua verso i prati che erano irrigati per allagamento  Restammo ammirati, sulla riva del laghetto e tra gli alberi, a guardare tanta imponenza e ne respiravamo l’umidità. Sentivamo nelle nostre narici l’odore del limo di fiume, che ci era famigliare, e sulla pelle la frescura dell’acqua nebulizzata che ci arrivava in faccia con lo spostamento d’aria.  Seguimmo il percorso dell’acqua, camminando lungo la riva della roggia che da lì partiva, seguendo con lo sguardo un tronchetto di legno che si era sganciato dal ribollire dell’acqua sotto la cascata, arrivammo all’incastrino passammo sul suo ponticello e ci trovammo di fronte al tunnel da dove usciva l’acqua che un tempo faceva girare la turbina del mulino. Era pieno fino quasi alla volta. 

Un grosso e vecchio salice piangente stava su quel piccolo promontorio di terra che ora fa da tappo a quasi tutta la roggia, le sue fronde scendevano fino al piede della pianta e alcuni rametti si appoggiavano sull’acqua orientandosi secondo la sua corrente. Guardai appagato. Mi piaceva quell’ambiente senza cemento, con tanti alberi e incontaminato. Basta poca immaginazione per capire che razza di ambiente era quel sito dietro il mulino. Oggi averlo perso è veramente un peccato.

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MORIRE A BOSCO 

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La morte del nonno.

L’inverno del 1955 durò più a lungo del solito. Agli inizi di marzo il freddo era ancora pungente e un venticello da neve, che ti faceva poco sperare in una precoce primavera, lo sentivamo spirare nella canna del camino.

Passeri e merli, quasi fermi, planavano nell’aria fredda sopra il cortile.

Normalmente al mattino vedevo la nonna scendere le scale e prendere possesso della cucina, mio padre sedersi a tavola e mangiare la colazione rigorosamente zuppa di pane nel latte, mia madre affaccendarsi per preparare mia sorella ed io per andare a scuola con la consueta vivacità di una casa abitata da gente laboriosa.

Ma in quei giorni no,  stavano tutti in silenzio. Anche Bobi non abbaiava, stranamente.

Chiedendo  cosa stesse succedendo, mi rispondevano sotto voce e con molta mestizia:

" Il nonno non sta bene, non gridare. "

" Ma che cos’ha? “ 

" E' vecchio e non sta bene, abbi pazienza stai zitto.“  Era la risposta che ricevevo.

Mai, come in quel periodo, vedevo il dottor Poggio, giovane medico condotto del paese, venire a trovarci almeno tre volte il giorno. Quando entrava nel cortile, Bobi, non abbaiava com’era suo solito fare da buon cane. Sentiva il clima di quei momenti.

Qualche giorno dopo, stavo giocando in cortile con cartucce da fucile da caccia, quando mia madre mi chiamò. Andai da lei:

" Pio il nonno vuole parlarti. "

" Cosa vuole."

" Vuole salutarti. "

Salii  in camera dei nonni e vi entrai  lentamente. Ciò che vidi mi fece un po’ d’impressione però fui lieto di vedere il nonno.

Era steso sul letto, con la camicia da notte bianca, la sua gamba ammalorata dalle vene varicose, alzata e posata su due cuscini e con le piaghe completamente esposte. Una serie di cuscini sotto la testa lo tenevano sollevato. Bianco di capelli, tagliati corti, con la barba incolta da diversi giorni, era lì con la bocca semichiusa e il respiro affannoso.  L’aria della stanza era pesante e sentivo l’odore dell’orina nel pitale.

Non mi vide subito, girai intorno al letto e gli andai vicino, si accorse finalmente di me guardandomi a lungo sorridendo.

" Ciao nonno. " Si concentrò un attimo e con un filo di voce mi rispose:

" Ciao Pio "   Lo vidi profondamente commosso. Nei suoi occhi apparvero delle lacrime.

" Mamma il nonno piange."

" E' contento di vederti " Mi rispose.

" Come stai nonno. "

" Bene bene. "  Mi tranquillizzò.

" Saluta il nonno Pio, dagli un bacio. " 

M’invitò la nonna. Mi avvicinai e baciandolo sulla guancia gli sussurrai:

" Ciao nonno. "

Alzò la sua mano destra, mi prese il capo e mi avvicinò a lui stringendomi e dandomi un bacio sulla fronte.

" Domani vengo a trovarti ancora. "

" Ciao Pietto vai pure e sta tranquillo. "

Mi rispose con il suo filo di voce. Così dicendo mi passò una mano nei capelli e me li scompose.  Lo lasciai che era contento di avermi visto. Girai intorno al letto, per uscire dalla camera, guardandolo sempre negli occhi e lui mi seguì, con il suo sguardo, fino a che ne fui fuori.

Tutta la notte fu un agitarsi delle persone che seguivano il nonno. Non mi osai chiedere ma capivo che era prossimo il dramma di una vita. Feci fatica a prendere sonno, mi addormentai molto tardi. Quella notte verso l’alba il nonno si spense.

Al mattino, fui svegliato e invitato ad andare a scuola .  Presi per mano mia sorella e a passo svelto ci incamminammo quando incontrammo per strada il parroco mons. Ugo Guarona. Veniva verso casa mia e  come ci vide ci fece il suo sorriso pacioccone, poi, quando ci fu vicino, ci disse quasi sussurrando:

" Ciao. "  Allungò una mano verso me, come per darmela, ma vidi che aveva una caramella. Era una sua abitudine dare caramelle ai bambini.

" Grazie. " Gli disse prendendola

" Vai, vai a scuola che è tardi. "  Mi rispose quasi sospirando e continuò con passo svelto verso casa mia.

Durante la lezione, sentii suonare le campane della chiesa parrocchiale. Era un suono lento e cadenzato.  Suonavano l'agonia. Restai muto e pensoso col groppo in gola e appena alzati gli occhi, incrociai quelli della maestra.

" Vai pure a casa. " mi disse.

Feci la cartella e me ne andai quasi senza salutare.

Scesi in Valgelata e corsi, sotto il muraglione, fino al cancello di casa. Lo trovai aperto, qualcuno usciva silenziosamente.

Le galline erano tutte chiuse nel pollaio e il cortile era stato ramazzato di recente.

Bobi, vicino alla porta d’ingresso, era accucciato con il muso appoggiato sulle zampe anteriori e puntato verso l’entrata. Tutto era in silenzio.

Volevo salire nella camera del nonno, ma entrando in casa lo vidi già in sala, disteso sul tavolo. Mio padre gli radeva la barba per l’ultima volta. Mi avvicinai, lo guardai e per la prima volta ebbi esattamente la sensazione di cosa fosse la morte. Non piansi come di solito capita, ho sempre avuto un buon controllo emotivo, ma mi dispiaceva profondamente che il nonno fosse morto. Oggi penso alla vita che aveva fatto, naturalmente cercando di immaginarla. Senz’altro, come tutti i nostri nonni, fu una vita di lavoro bestiale, senza tregua, senza riconoscimenti. Una vita dove, giorno dopo giorno, si doveva tirare avanti, fino allo spasmo, per tutta la giornata e arrivare a sera stanchi morti. Poi riposarsi per il giorno dopo, che spesso, era peggio dell’oggi. Chiamato alle armi per ben due volte, la seconda fu per andare in guerra sul fronte delle Dolomiti, sul Cadore. Probabilmente di momenti felici ne conobbe pochi, e per tutta la vita non fece che lavorare, lavorare, lavorare.

Addio nonno vecchio patriarca. Figura insostituibile nella vita di famiglia. Immagine inconsueta di saggezza ed esperienza, ma anche di passata ed obsoleta esistenza. Il tuo mondo finisce con te e con i tuoi compagni, che ti hanno accompagnato in tante sventure sui fronti di guerra e in tanto tribolare sul fronte del lavoro. Rimarrà di te il ricordo, nelle coscienze di chi ti ha conosciuto e apprezzato e con quel ricordo porterà avanti la sua vita nel bene e nel male, nella giustizia e nell’ingiustizia, nel lavoro e nella famiglia. Un giorno si riparlerà ancora di te cercando da qualche parte la tua storia, per poterla raccontare a chi non ti ha conosciuto, perché è nell’animo delle persone nostalgiche che si trova assopito quel ricordo che poi, al suo risveglio, farà conoscere ad altri le proprie radici.

A sera il cortile si riempì di gente. Venne monsignor Guarona a recitare il Rosario.

Alla fine fu un lungo via vai di gente che entrava in casa, osservava mesta la salma e si segnava con il segno della croce.  Tra le amiche di famiglia, di più lunga data, qualcuna baciò la salma, sulla fronte, salutando il nonno con dei “ Ciau Piìèn ” strozzati dalle lacrime. Erano, quelli, degli arrivederci a presto. Poi lentamente tutti ritornarono a casa loro.

Era d’uso, quando moriva un famigliare, vegliare tutta la notte accanto a lui e parlare di lui e della sua vita. Fu così anche per il nonno. Restarono a fare la veglia, oltre a mio padre, alcuni nipoti del nonno, Genio Bovone, Giovanni Bonabello, Felice Bovone, e Angelo Bovone. Per confortare la serata ai nipoti, mia madre aveva preparato una pentola di denso minestrone di pasta e verdure. Fu gradito da tutti, anche da me che desideravo fare la veglia come gli altri.

Il mattino dopo mi svegliai nel mio letto. Mio padre ridendo mi ricordò che ero inesorabilmente crollato prima della mezzanotte, poco dopo aver finito il piatto di minestrone.

Il 25 marzo ci furono i funerali. Quel giorno la coda dell’inverno ci fece la sorpresa di una bella e copiosa nevicata. Veniva giù abbondante e copriva velocemente ogni cosa.  La bara fu caricata su di un carro funebre, dico carro funebre, ancora tirato da cavalli con drappi neri, portata in chiesa per la funzione poi da li fino al cimitero. Ai quattro lati del carro, quattro cordoni di canapa dorati furono presi per mano da quattro vecchietti, amici d’infanzia del nonno. Un lungo corteo accompagnò la bara fino al cimitero e con noi vennero quei quattro vecchietti. Avvolti nelle loro mantelline nere e con gli zoccoli di legno nei piedi “ i sucròn-ni “. Seppure il loro passo stanco era malfermo, non si preoccuparono minimamente della neve che già era alta una decina di centimetri. Accompagnarono la bara, per l’inumazione, fino alla cappella di famiglia.

Finite le orazioni funebri di monsignor Guarona ci fu un attimo di silenzio mesto e composto e in quel silenzio, uno dei quattro vecchietti prese la parola e parlò tra i turbini di vento e neve che tagliavano la faccia. Era  Gamaleri Pio Oreste:

" Caro Pio sei arrivato infine alla tua meta ………." Disse.

Ricordo vagamente le parole che seguirono; parlò della loro vita, a Bosco, come amici di gioventù e soprattutto della loro avventura sui campi di battaglia della prima guerra mondiale. La migliore gioventù, la più sana, la più robusta, la più produttiva fu mandata sui campi di battaglia a combattere e morire lasciando a casa solo i vecchi, le donne, i bambini e gli scarti di leva. Ricordo molto bene che finì così:

"…..più di ottocento siamo partiti, sessantadue di noi sono rimasti là. Oggi ci contiamo sulle dita di una mano sola. "

Probabilmente si riferiva alla stretta compagnia degli amici di leva. Di veterani della prima guerra mondiale ce n’erano ancora almeno un paio di centinaia.  Con gli occhi pieni di lacrime e la voce strozzata ebbe un attimo di commozione profonda.

Alzo lo sguardo, il mento sembrava tremare, fece ancora uno sforzo si riprese e finì:

" Arrivederci Pio, presto saremo ancora tutti insieme. "

Parole che crearono un profondo silenzio rotto da qualche pianto strozzato e che al solo pensarci mi attanagliano il cuore ancora oggi. 

Così moriva quella gente.

 

Pio Gallina

 

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